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IL PROGETTO DELLO SPAZIO SACRO

Colloquio del cardinale Ravasi nell’Aula Magna di Architettura a Reggio Calabria

Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontifica Commissione di Archeologia Sacra e del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie e l’arch. Renato Laganà, professore del Dipartimento di Architettura e Territorio dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

Il 7 settembre 2017, l’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, insieme alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), ha conferito la laurea honoris causa in Giurisprudenza a S. E. R. cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.
Dopo l’introduzione del prof. Gaetano Manfredi, presidente CRUI e del prof. Pasquale Catanoso, rettore dell’Università Mediterranea e la Laudatio del prof. Ivano Dionigi, il cardinale ha tenuto la Lectio Magistralis sul tema “Diritto, Religione, Società”.
La ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, on.Valeria Fedeli, ha quindi conferito la laurea h.c., alla presenza dei rettori delle università Italiane, dei docenti dell’Università Mediterranea, delle autorità civili e militari e dell’on. Marco Minniti, ministro dell’Interno, che ha concluso con il suo intervento la cerimonia.

Il cardinale nel pomeriggio ha avuto un incontro, nell’aula Magna di Architettura, con i docenti e i dottorandi, dedicato alla presentazione di un master di II livello, che verrà presto avviato su proposta del Dipartimento Architettura e Territorio e dell’Istituto di Scienze Religiose dell’Arcidiocesi di Reggio Calabria – Bova.

L’intervento di Marco Tarquinio, direttore dell’Avvenire, al Convegno Pastorale Diocesano nell’auditorium Nicola Calipari del Consiglio Regionale della Calabria.

Il cardinale, dopo una breve presentazione del direttore del Dipartimento, prof. Gianfranco Neri, ha sviluppato la tematica del progetto dello spazio sacro. Il rapporto dell’uomo con lo spazio e il tempo parte dal momento in cui l’uomo identifica lo spazio a partire dal grembo materno per poi rapportarsi con il tempo, attraverso “il gocciolare delle ore che ci conducono alla morte”.
La ricerca di Dio all’interno dell’esistenza si relativizza, per il credente, con l’identificazione del suo corpo con il tempio.
Nell’Apocalisse, quando Giovanni guarda alla Gerusalemme Celeste e ne descrive la planimetria, afferma che “guardai e vidi che in terra non c’era più alcun tempio perché l’Agnello era il loro tempio”. Nella Bibbia e nella tradizione cristiana e nella storia c’è un segno notevole dello “spazio”.
“La sua radice deriva dall’indoeuropeo “spat”, che è alla base di “spatium”, ma anche alla base del termine “spes”, “speranza”.
Il cardinale pone poi all’attenzione dei presenti due considerazioni, la prima più teorica e la seconda più pratica.
All’interno della tradizione cristiana ci sono almeno più aspetti dello spazio che vengono considerati. “Per prima c’è la metafisica dello spazio, e la Bibbia è chiara. C’è la battigia, il litorale, il mare e il nulla che attesta allo spazio abitato a terra”.
In una pagina di Giobbe, nella Creazione, Dio prende il mare e lo chiude all’interno di una prigione, una frontiera, e dice “Tu non varcherai questa soglia”. Abbiamo, quindi, la prima considerazione dello spazio e la consapevolezza che lo spazio è finito, cogliendo la fragilità dello spazio in cui noi siamo”.

Marco Tarquinio con il prof. Renato Laganà e Davide Imeneo, direttore del settimanale L’Avvenire di Calabria.

Ciò non può non considerare quanto indicato nell’Apocalisse quando Giovanni guardava alla geografia celeste e il mare non c’era più.
Lo spazio quindi diventa infinito e, in questa prospettiva, lo spazio sacro deve essere simbolo di qualcosa che non è la finitudine della terra, della casa. La seconda considerazione guarda all’antropologia dello spazio.
Nella Bibbia la parola più usata dopo il nome di Dio, Jahvè, nell’Antico Testamento è la parola “ben” che vuol dire infinito.
Essa deriva dal verbo banar che vuol dire costruire. La costruzione migliore che fa la persona umana è generare un figlio, per cui lo spazio da costruire deve essere anche il luogo in cui la persona si trova e quindi il suo centro vitale.
È interessante prendere in considerazione la forte riflessione di Mircea Eliade, antropologo del sacro, che individua quando e come è cominciata l’organizzazione dello spazio.“Essa è cominciata con la costruzione del centro, un centro che coordini e dia senso allo spazio che sta attorno e che è confuso”.
L’Architettura della persona viene quindi identificata con l’architettura dello spazio.
La terza considerazione, espressa dal relatore, è quella che tiene conto del fatto che, “oltre ad esserci una metafisica e un’antropologia, esiste anche una teologia dello spazio e, nell’interno di questo spazio costitutivo fondante dell’essere, c’è lo spazio, c’è il tempio”.
L’attenzione del cardinale è quindi rivolta ad identificare i tipi di tempio, identificandone due.
Innanzitutto il tempio cosmico.
Nel Salmo 148 c’è l’idea che già l’universo sia un tempio. L’immagine che esso desume è una sorta di liturgia corale che fa vedere l’universo con 22 creature (perché tante sono le lettere dell’alfabeto ebraico) che stanno cantando al cielo dove ci sono le creature celesti.
“Nel tempio cosmico tutto deve essere casa, e l’uomo è liturgo in questo tempio particolare”.
Il riferimento va al canto dei Chassidim che “nella tradizione giudaica era quello che cantavano gli ebrei quando venivano eliminati nei forni crematori nazisti o nelle valli dell’Ucraina”.
Essi andavano cantando la canzone Tu: “Dovunque io vada, solo Tu. Dovunque io sosti, solo Tu. Proprio Tu, ancora Tu, sempre Tu. Cielo Tu, Terra Tu.
Dovunque io mi giro e miro e contemplo Tu, solo Tu accogli sempre Tu”.
In queste parole è racchiusa l’idea del tempio cosmico.
Fa poi riferimento a due elementi: il primo è quello biblico, (1° Libro dei Re 8, 27), quando Salomone, per la consacrazione del tempio di Gerusalemme, si pone un problema di tipo teologico.
“Ma se è vero che neppure i cieli possono contenere Dio, come lo potrà contenere questa casa che io ho costruita?”
E la risposta a questa domanda non può che riferirsi anche al titolo, che viene dato al tempio e, prima nel deserto, alla tenda. “Essa sarà Loem net, la tenda dell’incontro. Eppure Dio, con la sua libertà, decide di comprimersi nello spazio e nel tempo per incontrare l’uomo che è finito. L’incontro con Dio precede l’incontro anche con i fratelli”.
Poi, dopo una riflessione sul Tempio, continuando, afferma che “complicato è il discorso del rapporto che ci deve essere tra spazio, spazio sacro in particolare, e l’esistenza”.
Il richiamo va a un inno cabalistico medievale, “che è una modernissima riflessione”, sul non luogo.
Per definire questa dialettica che cita Dio presente-assente, non comprimibile nella magia dello spazio, c’è un inno che in ebraico, nel suo ritornello ripete hu’ hammaqôm shel-maqôm / we’en hammaqôm megomô. Si ripete la parola maqôm, che in ebraico vuol dire contemporaneamente luogo, tempio e anche spazio sacro.
Nell’inno è il Luogo di ogni luogo ed è Lui che dà senso allo spazio sacro con la sua presenza e questo suo Luogo non ha luogo.

La cerimonia della laurea h.c. nell’Aula Magna dell’Università

La seconda considerazione sul tipo viene quindi indirizzata verso lo spazio liturgico cristiano attuale. Per la prossima Biennale dell’Architettura di Venezia il prof. Dal Co, nel ruolo di curatore del padiglione della S. Sede, ha convocato dieci architetti, per definire una serie di modelli, delle costruzioni essenziali, all’interno dello spazio nel bosco della Fondazione Cini. Ricorda quindi, che nell’architettura il dialogo tra arte e fede è stato avviato da tempo, e molti archistar cercano di costruire una chiesa anche se “lo fanno non tenendo conto della grammatica, per cui tante volte alcune sono discutibili”.
Il tono del relatore si trasforma in considerazioni operative quando, avviandosi alla conclusione, elenca i “cinque elementi che dovrebbero essere sempre una grammatica della costruzione delle chiese”.

1 – Tener conto del rapporto tra spazio sacro e profano. Spazio interno al tempio ed esterno. Potrebbe essere il vertice, come a Milano, ma potrebbe essere anche una spina nel fianco e la fortuna di un quartiere come nel caso di Tor Tre Teste, la chiesa di Meier a Roma “dove la gente è orgogliosa di avere qualcosa che altri vengono a vedere”.

2 – Il tema della luce.
“La luce è trascendenza e immanenza. Il gioco della luce all’interno del tempio non è solo illuminazione né deve essere aprire le finestre”.

3 – La questione della bellezza in sé.
“Non è l’estetismo. Se è vero che il bene è il bello, e nel linguaggio biblico si identificano, noi dobbiamo trovare uno spazio nel quale ci sia la possibilità di vivere intensamente l’umanità ma, nel tempo stesso, la trascendenza che è propria della bellezza.
È qualcosa che è oltre e non per nulla si sposa con l’etica ed estetica.

4 – L’Architettura e l’arredo sacro.
Il dialogo tra architetto e artista (o anche artigiano) all’interno dell’edificio sacro in passato era naturale, così da avere un’integrazione fra le componenti pittoriche, scultoree, rituali d’arredo e architettura.
Ora questo contatto è più arduo e così si compiono successivamente addizioni alla chiesa costruita non sempre coerente.
Il culto cattolico infatti, esige anche la presenza artistica figurativa.

5 – Architettura e Liturgia.
Ricorda il caso in cui, in una bella chiesa suggestiva, l’acustica è cattiva. Ribadisce quindi che l’ascolto della parola “è una componente fondamentale del culto”.

Il cardinale conclude, citando il filosofo Jean Guitton che affermava che nella liturgia, e questo vale anche per l’architettura, devono esserci il Numen e Lumen, cioè essa “deve essere mistero e visibilità”. Quindi, richiamandosi alla testimonianza offerta per il n. 100 della rivista Chiesa Oggi, “sperare che Numen e Lumen si intreccino è il compito dell’architettura”.

a cura del prof.arch. Renato Laganà

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