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Per un’Agenzia del patrimonio culturale pubblico

Antonio Leo Tarasco
Dirigente della Direzione Generale Musei del Ministero per i Beni e le attività culturali e il turismo (MIBACT) e professore di Legislazione dei Beni Culturali *

La crisi finanziaria post Covid-19 non ha risparmiato il settore culturale, incluso quello del patrimonio culturale, in cui le prospettive di guadagno da mostre straordinarie e visite ordinarie sono venute a mancare a causa della chiusura forzata di tutti i luoghi pubblici, inclusi musei e aree archeologiche, con conseguenti perdite quantificabili, almeno per i musei statali, nell’ordine di circa 65 milinoni di euro nel trimestre di quarantena.

Poiché dagli introiti da biglietteria, la massima parte dei musei pubblici italiani (statali e non) ricava mediamente il 90 per centro delle entrate, ne deriva che la chiusura dei diversi luoghi della cultura ha determinato non solo il crollo dei relativi consumi culturali ma anche delle entrate finanziarie che alimentavano in quota parte le entrate del settore.

Come rilanciare il settore?

Il mainstraem del momento si chiama “iniezione di liquidità” e fa leva sull’intervento keynesiano per rilanciare i consumi e riattivare i motori economici. Perfino i più accreditati economisti della cultura formulano le stesse proposte di archeologi, laddove ci si attenderebbe da loro soluzioni creative ispirate a quella che i francesi chiamano ingénierie culturel e che ha consentito loro di ricavare reddito non solo dal classico patrimoine culturel ma finanche dagli actif immatériels (marchi commerciali, brevetti, immagini, domini internet, expertise). Il nome Louvre, fattone marchio, è stato concesso in licenza per 30 anni agli Emirati arabi in cambio di circa 400 milioni di euro, l’equivalente degli incassi da biglietteria di due anni di tutti i musei statali.

Per restare in Italia, nella Fondazione musei civici Venezia che riunisce dal 2008 dodici luoghi straordinari tra cui Palazzo ducale e Museo Correr, il bilancio si chiude con un utile, nel 2017, di € 1.871.883,00 e, nel 2018, di 1,5 milioni (€ 1.480.749,00); nel 2019 ha finanche superato i 2 milioni (€ 2.202.005,00). Un altro modo di gestire è perciò possibile, realizzando una missione culturale ma anche ricavando utile da reinvestire.

Di qui la difficoltà di considerare le proposte basate esclusivamente sul finanziamento pubblico sostenibili e realistiche, a meno di non accettare l’idea di un indebitamento perenne dello Stato dal quale potremmo non uscire mai. Qualunque sia il modo attraverso l’Italia si risolleverà, è certo che bisognerà tornare a produrre e incrementare il PIL, così da aumentare i redditi dei cittadini e le entrate fiscali.

Come si concilia tutto ciò con il necessario rilancio dell’economia del patrimonio culturale e dei settori produttivi collegati?

Una delle soluzioni consiste nell’utilizzazione economica del patrimonio culturale pubblico digitalizzato. Questo vale non solo per le opere d’arte e i beni archeologici ma, in linea di principio, anche per i beni archivistici e librari. Fino ad oggi, le attività di digitalizzazione sono state interpretate come una sorta di “regalo” agli utenti per incrementare la fruizione del patrimonio culturale e testare la visibilità nei social network dei diversi luoghi espositivi; una sorta doppione cui non è stato mai attribuito un valore economico.

Eppure, il digitale potrebbe rappresentare non solo un modo per completare la visita reale dei luoghi espositivi ma anche per ricavare la redditività economica di cui il settore ha bisogno per risollevarsi dopo il Covid-19. Se il 90 per cento delle entrate museali deriva dalla biglietteria, ogni quarantena sarà sempre in grado di (ri)mettere in crisi il settore. Per questa ragione, la fruizione digitale del patrimonio culturale pubblico potrebbe garantire da un lato di continuare ad offrire i beni culturali anche in caso di chiusura forzata e, nel contempo, permetterebbe di ottenere importanti entrate a prescindere dall’ingresso fisico: si pensi alla vendita telematica di prodotti commerciali derivati dai beni culturali, alle riprese filmiche e fotografiche a pagamento, alla cessione di licenze d’uso dei marchi commerciali che impieghino segni ed immagini del patrimonio culturale. Il Louvre di Parigi, nonostante il lockdown, continua ad incassare i proventi derivanti dalla licenza d’uso del marchio “Louvre”, così come tra i self-generated income dei musei britannici continuano a figurare, nonostante il lockdown, i “trading income”, cioè i proventi derivanti dal commercio di riproduzioni di beni culturali, tanto fotografie (poster, puzzle) quanto oggettistica.

Se la crisi da Covid-19 ha colpito tutti i musei del mondo, certamente vi sono contesti in cui essa ha colpito maggiormente; e tra questi figura, purtroppo, l’Italia, dal momento che i suoi ricavi autonomi sono condizionati all’apertura fisica dei luoghi della cultura, a differenza delle istituzioni museali straniere, come ad esempio quelli francesi o anglosassoni. Si aggiunga che a differenza di quanto il puritanesimo italiano consente, i musei anglosassoni hanno sperimentato vendite di opere d’arte: nel 2014, la città di Detroit, allora in dissesto, per evitare il default, incaricò Christie’s di vendere opere per 866,9 milioni di dollari; nel 2017, poi, il Berkshire Museum, nello Stato americano del Massachusetts, ha venduto opere per agevolare il ricambio delle proprie collezioni. E di recente la benedizione finale è arrivata anche dall’Association of Art Museum Directors.

Per questo, dalla fase 2 in poi, serve pensare in modo innovativo e valorizzare gli asset strategici materiali e immateriali presenti in Italia. Per fare ciò non si può che separare definitivamente la gestione tecnica del patrimonio culturale dalla funzione di indirizzo politico e di tutela.

In altri termini, occorre una separazione netta tra uffici che si occupano della cura conservativa (tutela) e della fissazione degli obiettivi di crescita culturale (valorizzazione) da quelli deputati alla gestione aziendale del patrimonio culturale.

La soluzione organizzativa può essere individuata nell’istituzione di una «Agenzia per il patrimonio culturale pubblico», organismo tecnico, non incluso nell’apparato politico-governativo, deputato esclusivamente alla gestione redditiva del patrimonio culturale e chiamato, nel contempo, ad attuare gli indirizzi di promozione culturale. Tale soluzione organizzativa potrebbe essere il modo migliore per realizzare, simultaneamente, obiettivi di valorizzazione culturale e rispetto del metodo dell’efficienza aziendale, così coniugando i valori evocati negli articoli 9 e 97 Cost.

Duplice lo scopo. Innanzitutto incrementare l’attivo così che l’emissione del debito pubblico sia fondato su una base ancor più ampia dell’attuale, con conseguente possibilità di rivedere al rialzo gli indici di affidabilità del mercato che le Agenzie di rating, forse anche per ragioni speculative, tendono a rivedere al ribasso.

In alternativa potrebbero impiegarsi strutture già esistenti, come la Cassa depositi e prestiti, assegnandole gli stessi obiettivi: l’organismo, comunque denominato, dovrebbe poter raccogliere ogni bene culturale pubblico, chiunque ne sia il soggetto proprietario, senza alterarne la condizione giuridica originaria (e, quindi, l’eventuale inalienabilità).

Secondo quanto è stato stimato, il valore del patrimonio culturale statale (mobile e immobile) è di ben € 243.502.219.257,71. Quello complessivo pubblico, statale e non, non è inferiore ad almeno 10 volte quel valore e, dunque, a circa 2.430 miliardi di euro: molto più del PIL italiano del 2019 (€ 1.787 miliardi).

La nuova organizzazione della gestione consentirebbe, poi, anche di realizzare operazioni finanziarie, ferma restando la funzione di conservazione e fruizione pubblica dei beni affidati. Potrebbero emettersi, ad esempio, “Bot culturali”, con un rendimento basato proprio sul rendimento di quello stesso patrimonio culturale, opportunamente rivalutato e gestito, appunto, con una mens aziendale, e pur sempre nel rispetto degli obiettivi di valorizzazione culturale assegnati dal committente pubblico. I sottoscrittori delle obbligazioni potrebbero anche ottenere servizi culturali specifici in luogo della restituzione di capitali maggiorati di interessi.

Tutto questo può funzionare se a governare i processi siano dei tecnici della gestione che, pur attuando indirizzi politici, siano completamente autonomi nel far ciò; solo un corpus organizzativo separato rispetto agli apparati ministeriali può garantire simile tecnicità e autonomia. Incrementare la redditività del patrimonio culturale non è difficile, ma richiede un cambio di mentalità che sappia leggere in modo armonioso obiettivi culturali ed economici.

*Le opinioni sono rese a titolo strettamente personale

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