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La chiusura permanente di fatto di una chiesa

Nei nostri dintorni si trovano spesso chiese abbandonate, nelle quali non viene più celebrato il culto divino e nessuno può entrare. Inoltre gli edifici presentano tangibili segni di decadenza strutturale. Si è in presenza di c.d. chiese chiuse di fatto, ossia sprovviste del decreto della competente autorità ecclesiastica, di cui al can. 1222.

Mons. Paweł Malecha, Promotore di Giustizia Sostituto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica e docente presso la Pontificia Università Gregoriana

Al fine di prevenire la chiusura permanente di fatto di una chiesa, i fedeli a volte si fanno portavoce di una serie di iniziative, organizzando negli edifici sacri abbandonati teatri, sale cinematografiche, biblioteche, musei, luoghi di ritrovo per giovani o anziani, ecc. Inoltre, alcuni Vescovi o parroci permettono di celebrarvi ogni tanto la Santa Messa.
A questo punto nasce la domanda su quale sia il significato giuridico
1) di una chiusura di fatto e
2) di una eventuale riapertura di una chiesa.
La risposta non è scontata, perché le fattispecie possono essere le più diverse.

Quanto al primo quesito, va notato che la chiusura stessa non cambia lo stato giuridico dell’edificio sacro: finché non sarà emessa una decisione formale in merito alla sua riduzione a uso profano, rimane sempre chiesa.
Tuttavia, contro la chiusura permanente di fatto, i fedeli possono presentare ricorsi e istanze alla competente autorità ecclesiastica, affinché la chiesa sia riaperta al culto divino.
Quanto invece alla seconda questione, si prendono ora in esame alcune principali fattispecie.

La prima

Se il Vescovo diocesano, accogliendo le aspettative dei fedeli, riaprisse un edificio al culto divino, si avrebbe immediatamente, ovvero senza ulteriori formalità, una chiesa. Essa, se fosse andata in rovina, potrebbe essere di nuovo benedetta o dedicata, effettuati i necessari lavori di restauro.

La seconda

Se un edificio non venisse riaperto al culto divino, ma soltanto alle attività culturali, sociali o sportive, si avrebbe una violazione della sacralità dell’edificio, perché tali attività si svolgerebbero in chiesa.

La terza

Se un edificio venisse riaperto sia al culto divino sia alle attività culturali (ecc.), si porrebbe una domanda provocatoria: si sarebbe, per esempio, dinanzi a una chiesa in un teatro o piuttosto a un teatro in una chiesa? Prescindendo dalle singole situazioni, nella maggior parte di questi casi si sarebbe di fronte a una violazione della dignità del luogo sacro: infatti, si tratterebbe di un edificio con una pluralità di usi.

La quarta

Se, infine, il Vescovo diocesano emanasse un decreto di riduzione di una chiesa a uso profano, questa soluzione risulterebbe corretta, in vista della sua riapertura per un uso profano non indecoroso.

*Nelle foto, la ex Chiesa di San Giuseppe ad Asti, oggi diventato Spazio kor, teatro, museo della scenotecnica, residenza e spazio artistico, grazie alla collaborazione tra Comune e Associazione culturale Craft.
Foto da Associazione CRAFT

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