a cura di Samuele Pinna
Architetto per conto di Dio: Un’opera tra cielo e terra, l’architetto Giulio Marzio Possa racconta la sua vita, la fede e il sogno di un santuario nascosto nella roccia sarda, tra memoria personale, ingegno progettuale e segni della Provvidenza.
Intervista a Giulio Marzio Possa
Incontriamo l’architetto Giulio Marzio Possa, classe 1938, che si è laureato nel 1963 al Politecnico di Milano, avendo come professori Giò Ponti, Ernesto Nathan Rogers, Leo Finzi, per parlare del suo progetto di costruire un Santuario mariano in Sardegna presso la Costa Paradiso.
La professione di architetto
L’arch. Possa nella sua lunga carriera professionale ha sviluppato tra le altre cose il progetto urbanistico e il piano architettonico dei quartieri residenziali di Brugherio – “Milano 2” e di “Milano 3” per conto della Edilnord di Silvio Berlusconi.
Tra le sue molteplici attività, è stato anche direttore Italia della progettazione architettonica in Standa SpA, dove ha coordinato la progettazione di circa cento centri commerciali in tutta, ricevendo non pochi riconoscimenti.
Vogliamo conoscerlo da vicino, iniziando a parlare del lavoro e chiedendogli chi è per lui l’architetto, lui che è nato – tra l’altro – in una famiglia di ingegneri.
Da bambino probabilmente non pensavo di diventare architetto, perché la mia famiglia indirizzava i figli maschi a divenire ingegneri. Era predisposto che diventassi ingegnere: con mio padre, per esempio, ho realizzato un motore elettrico funzionante e per lui era naturale che seguissi quella strada. Ho fatto il liceo scientifico perché ero portato per quelle materie, a differenza di mio fratello che ha fatto il classico, anche se lui alla fine è diventato ingegnere e io no! Non è stata la mia una contestazione, ma al momento della maturità scientifica ero in dubbio se fare medicina o architettura e non ho fatto medicina perché, per quanto ricordavo della guerra, avevo un ostracismo verso il sangue, non riuscivo a vederlo in nessuna maniera. Per cui ho detto: “Beh, per me è naturale fare l’architetto”.

In famiglia la scelta è stata accettata tranquillamente, anche perché c’erano dei precedenti: uno dei miei nonni ha lavorato nello stesso campo.
Dopo la tua decisione c’è un inizio che potremmo definire casuale o, meglio, provvidenziale (parola che tornerà più volte): l’incontro con Silvio Berlusconi. Cosa puoi raccontarci?
Sono stato incredibilmente fortunato nel campo della professione. Non così nella vita privata. Sono persuaso che la Provvidenza ha compensato una cosa con l’altra. Penso di essermi preparato come architetto in una maniera “disperante”, nel senso che per cinque anni mi sono solo concentrato sullo studio, applicandomi con tutto me stesso. M’impegnavo e mi affascinavano persino le materie che per molti altri erano le più ostiche. In più, per far vedere a mio padre che sarei stato in grado di fare anche il mestiere d’ingegnere, dopo la laurea ho insegnato per tre anni strutture.
Poi c’è stato l’incontro “provvidenziale” con Silvio Berlusconi.
Sono stato fortunatissimo perché ho incontrato per caso mentre camminavo per strada Silvio Berlusconi (amico di mio fratello), il quale mi disse che stava progettando un intero paese e gli ho chiesto di farmi vedere i progetti. Dopo averli analizzati, gli ho fatto capire che stava facendo una cosa malfatta. E lui mi ha proposto di presentare delle alternative. Ero all’ultimo anno di architettura e mi mancavano circa tre esami alla laurea, per cui mi feci aiutare anche da altri amici, studenti di architettura; le idee furono accettate di buon grado.
Da quel momento la vostra collaborazione è proseguita per il resto della tua vita professionale. Del tuo lavoro come architetto cosa vuoi ricordare in modo particolare? Quale progetto che hai realizzato ti sta più a cuore?
Probabilmente, come le madri con i propri figli, sono legato a tutto ciò che ho fatto. Ma ci sono alcuni progetti che sono dentro al cuore, non solo perché hanno espresso quello che uno voleva esprimere, ma anche perché – qualche volta – si è arrivati a realizzarli superando difficoltà pazzesche.
La mia opera che sento più riuscita è la piramide in vetro che ho realizzato a Lacchiarella e che è stata identificata dalla rivista Modulo come la prima piramide in vetro al mondo. È nata nove mesi prima di quella di Ieoh Ming Pei al Louvre di Parigi. Ho avuto modo di mostrare le differenze al più grande costruttore francese dell’epoca, Francis Bouygues, che un giorno è venuto appositamente in visita a Lacchiarella. Dopo avermi ascoltato mi ha fatto la proposta più fantastica della mia vita: essere il suo uomo e fondare con lui una sua società in Italia. Purtroppo, Francis Bouygues è morto un mese dopo e tutto è finito nel nulla. Tornando alla mia piramide ricordo che è stata approvata dal Comune di Lacchiarella con a favore il sindaco e l’ufficio tecnico contrario. Il sindaco aveva detto: “Io ho più fiducia nell’architetto Possa che nel mio ufficio tecnico!”. Una struttura reticolare spaziale: una piramide a base triangolare. Dai disegni, necessariamente in 2D, nessuno capiva quello che sarebbe venuto fuori e questo ha facilitato l’iter. Per mia fortuna hanno dato il via libera e sono ancora orgoglioso di quello che ho realizzato.
Ciò mi dà l’aggancio per una questione profonda, da un punto di vista umano: all’interno e al di là della professione, condividi che ci debba essere un’etica, una onestà morale da vivere sul lavoro?
Assolutamente sì! E per vivere questo, come la Chiesa insegna, trovi molti ostacoli a tutti i livelli. Silvio Berlusconi ha avuto fiducia nel sottoscritto e mi ha dato la responsabilità della presentazione dei progetti di Milano 2 (circa l’80-85% sono a mia firma, come riscontrabili nell’archivio del Comune di Segrate), senza mai ricevere un briciolo di contestazioni.
Era una questione morale. In quel momento viaggiavano a Milano tanti altri palazzinari che chiaramente avevano i loro percorsi, ma ho sempre ritenuto che si dovesse fare qualcosa di corretto (tra l’altro, fare corretto o non corretto ci si mette lo stesso tempo). Bisognava, però, stare estremamente attenti. Sapevo a priori, perché gli attacchi sono venuti solo a posteriori, ho intuito fin da subito, che questi progetti così importanti sarebbero stati messi sotto la lente di ingrandimento, dove i controlli avrebbero setacciato tutto il setacciabile. Sono soddisfatto nel constatare che non hanno trovato mai niente di scorretto.
I progetti sono passati anche sotto la lente di ingrandimento di “Mani Pulite” con il “caso” Di Pietro. Cosa ci puoi raccontare a questo proposito?
Tra il 1990 e il 1992, Antonio Di Pietro, cercando di affossare Silvio Berlusconi in tutte le maniere, ha cercato di prendere come appiglio l’argomento delle costruzioni, trovando che l’unico che del gruppo aveva un bagaglio di concessioni edilizie ero io. Ne ha sequestrate circa cento, realizzate in due anni. Credo di avere una specie di primato italiano. Ha preso una stanza del Palazzo di Giustizia, l’ha riempita di scatoloni e ha dato l’incarico a tre professionisti di spulciare tutto. Ci hanno messo un anno e mezzo e io ero nell’angoscia, anche perché tutti gli architetti che erano passati sotto il terremoto di Di Pietro erano stati distrutti. Cercavo di prepararmi nottetempo e insieme di continuare il mio lavoro normale. Un anno e mezzo dopo, senza aver ricevuto nessun avviso di garanzia, perché non avevano trovato niente, restituirono – senza dire una parola – quanto sequestrato.
A quel punto, siamo nel 1992, Di Pietro mi telefona, mentre ero al mare a Sestri Levante, e mi propone di incontrarlo perché lui si presentava alle elezioni con il suo movimento politico. Mi ha ventilato l’idea di poter essere un senatore del suo gruppo. Non potendo incontrarlo in quei giorni, inviò dei suoi collaboratori da me per trattare la cosa e queste persone sconosciute sapevano ogni aspetto del mio lavoro soprattutto in Calabria, dove mi proposero di candidarmi: erano a conoscenza con chi mi incontravo, con chi andavo a prendere il gelato, quando uscivo per comprare il giornale… sapevano tutto! Mi sono venuti i brividi sulla schiena, perché ero controllato in una maniera da disperati: soltanto dei disperati sorvegliano uno che va a prendere il gelato! I tentativi di affossare Silvio Berlusconi erano andati a raffica, in una maniera spropositata, tenendo controllato anche uno come me, sotto vigilanza pure quando andava a comprare il giornale!
Incontro poi di persona Di Pietro a Milano, il quale rinnova la proposta di partecipare alle elezioni. Io gli ho detto: “Sono un tecnico, non mi interessa la politica”, e ho abbandonato l’idea. Mi dispiace solo una cosa: in quelle elezioni, mio fratello e un mio cugino di primo grado sono stati eletti deputati: saremmo stati praticamente tre in Parlamento della famiglia e, tra l’altro, in tre partiti diversi!
La famiglia
A proposito di famiglia, l’arch. Possa si è sposato con Anna Maria Cossu il 30 agosto 1966 (purtroppo deceduta il 27 luglio 2008) con cui ha avuto tre figli: Marco (28 febbraio 1968) ingegnere elettronico, Viviana (9 luglio 1969) farmacista ed Enrico, sulla cui storia torneremo, nato l’8 settembre 1981 e deceduto il 17 agosto 2003.
Chiedo: quanto è stata importante per te la tua famiglia per il tuo lavoro e nella tua vita in generale? Ha ancora valore questa istituzione?
Sono stato sposato e sono rimasto attaccato al mio matrimonio e alla vita di famiglia, ed è stata una cosa che ricordo in maniera completamente positiva. Che non sia sposato adesso è solo perché, ovviamente, sono troppo difficile! Chi potrebbe innamorarsi di me? Non è che io non sia aperto all’idea, ma sono complicato dalla nascita! Quando avevo sei anni, sono stato iscritto in seconda elementare senza fare la prima, dopo aver sostenuto l’esame di ammissione e mi sono trovato in una classe già formata, ma non mi sono perso d’animo, anzi mi sono impegnato al massimo: la maestra ogni settimana dava un premio e ho collezionato tanti dei premi che consegnava! Cercavo di far vedere che ero capace di fare quello che mi veniva chiesto. A un certo punto, ho vinto un papero d’anatra. Avevamo un orto grande e quel papero mi si fiondava addosso, come nelle pagine descritte da Konrad Lorenz. Praticamente riconosceva solo me. Poi, durante la Pasqua dell’anno successivo, non lo trovai più. Scavando, scavando, scoprii di averlo mangiato anch’io durante le festività. Dopo quell’episodio, per protesta, decisi di non mangiare più carne, né uova, né pesce. Fu una difficoltà estrema in famiglia. Mi portarono dai dottori, cercarono di convincermi che non potevo vivere in quel modo e che sarei morto. Io dicevo solo: “È colpa vostra. Il papero era mio, non vostro. L’avevo conquistato io con la mia capacità, non dovevate fare quello che volevate senza dirmi nulla!”. È stata una contestazione che però mi ha reso duro. Io sono morbidissimo e durissimo allo stesso tempo. Quando ho gestito la progettazione del Girasole, Silvio Berlusconi mi ha dato la responsabilità della società, la progettazione e la direzione dei lavori: avevo insomma in mano tutto! A nessun altro ha mai dato da gestire tutto insieme, perché chiaramente avrebbero fatto quello che volevano dei suoi soldi. Conclusione: ho chiuso i conti con le tre più grandi imprese milanesi praticamente come da contratto. E nessuno mi ha ringraziato per aver fatto una barriera totale di “niet”, come solo un mulo poteva sostenere. È per essere stato mulo dalla nascita che ho potuto esprimere quella forza, in maniera ferma, ma dolce. Avevo rapporti buonissimi con queste imprese.
Questa tua determinazione ti ha dato anche la forza per crescere Enrico, che era diversamente abile.
Ho avuto la presunzione o la speranza che Dio mi avesse dato questo figlio perché potessi risolvere un caso di quel genere. Mi sono detto: “Io studio, mi do da fare”. Tornavo dopo otto o dieci ore di lavoro dall’ufficio e mi mettevo a studiare a casa. Ho letto circa cinquanta libri di medicina su quel tema. Ho pure avuto contatti con strutture mediche qualificate di Philadelphia, di San Diego, in California e con il Kinder Hospital di Berna, esprimendo le mie considerazioni sull’autismo, tenendo conto che sono stato uno dei primi a parlarne in Italia. Mi sono dato da fare, ma ho perso la battaglia, perché in pratica non siamo riusciti a salvarlo. Dietro a mio figlio, però c’è stato un lavoro collettivo strepitoso. La mia casa era aperta il pomeriggio, arrivavano ogni giorno circa quattro persone ad aiutare dietro indicazioni precise. Ho constatato con mano come il bene richiama il bene e intorno a Enrico si è costruita una piccola comunità. Alla sua morte, in pieno agosto, la chiesa di Sant’Agostino in Milano era piena di gente che aveva aiutato.
La fede
L’arch. Possa ha scritto in una “Lettera a Dio” alla morte di Enrico parole molto toccanti. Mi soffermo su un passaggio: «Sei venuto così presso di noi, piccolo nostro personale Gesù, il Gesù della nostra famiglia, figlio speciale tra i figli, fratello speciale tra i fratelli; amato in modo particolare proprio per la tua fragilità, per la lunga, continua, particolarissima e dolorosa croce che, così piccolo ed inerme, hai saputo dolcemente portare». E ancora: «Non ci è arrivato il desiderato miracolo eclatante della tua guarigione, ma il miracolo più sommesso ma altrettanto incredibile della condivisione del dolore».
Si legge già tra le righe, ma cosa ti ha insegnato questo figlio pur dovendo attraversare un’esperienza tanto dolorosa?
Mi ha insegnato prima di tutto di non avere sfiducia in nulla di quello che mi può capitare. Davanti a delle prove puoi verificare come affrontarle e risolverle nella maniera corretta. Per esempio, quand’ero in Standa ero preoccupato, perché o partecipavi ai furti oppure facevano di tutto per farti andare via, anche in maniera ignobile. Ho deciso, pertanto, di andare in pensione appena ho avuto la possibilità. Non fu una scelta facile, perché ero l’unico a mantenere con uno stipendio la famiglia e la pensione era bassa, ma non potevo più lavorare in quelle condizioni. Racconto un episodio significativo, mostrando anche com’era la mia vita di architetto d’allora: partenza alle 4.30 del mattino da Milano, primo appuntamento alle 9.00 e poi un altro alle 9.30 a Chieti, dove avevamo la costruzione di un centro commerciale. Il capocantiere mi fa parcheggiare in un posto non adatto per poi chiedere le chiavi della mia automobile con una scusa per spostarla. Dopo un quarto d’ora riparto per Roma, ma comincia subito a nevicare e mi fermo per verificare se avevo a bordo le catene. Quando apro il bagagliaio lo trovo pieno di salumi, formaggi, bottiglie… Torno immediatamente indietro e nel cantiere faccio svuotare l’auto: riprendo la strada, ma vengo fermato dai carabinieri per un controllo, che capisco non essere casuale. Volevano inguaiarmi, ma per fortuna non ci sono riusciti: il bagagliaio era vuoto!
Ritorniamo, quindi, alla onestà morale che mi fa domandare quanto sia stata ed è importante la fede cattolica nella tua vita, nella tua famiglia, ma anche nel tuo lavoro.
La fede è stata decisiva e, quando ho deciso di andare in pensione, con mia moglie ci siamo detti che dovevamo fidarci della Provvidenza, che mi ha sempre aiutato nella professione. Mi mandavano – per esempio – costantemente negli Stati Uniti a fare studi sulle linee commerciali americane, ma l’ho vissuto come una possibilità e non come – sebbene lo fosse – un modo per tenermi lontano. Ebbene, grazie a quella esperienza, ho determinato l’arrivo in Italia della Blockbuster. La moralità e la mia fede cristiana mi hanno sostenuto, perché ho sempre visto nella costruzione cristiano-cattolica un disegno di un’intelligenza superiore che sfida la nostra intelligenza, nel senso che – sebbene non sia facile comprendere tutto – vedo che c’è una un’intelligenza viva, anche se nascosta, che non ho visto in nessun’altra religione, per quel poco che posso averle studiate. Penso di essere nel giusto in questo inquadramento e ovviamente ne ho un terrore, perché vedo il Paradiso come qualche cosa che ci sfida a superarci ulteriormente, come se la vita terrena fosse una preparazione. Intendo così la vita eterna: come un darsi da fare ad altissimo livello, più che come pura estasi.
Sulla questione della fede, ma anche del fare morale, c’è stato un altro incontro particolare nella tua esistenza, si potrebbe dire anche in questo caso casuale, sebbene non sia così (forse la parola giusta dovrebbe essere ancora “provvidenziale”), quello avvenuto intorno all’anno 2000 con dom Christian Thomas, un monaco francese trapiantato in Calabria in odore di santità: cosa puoi raccontarci?
L’incontro con questo monaco è stato qualche cosa che colpisce tutti quando racconto com’è avvenuto. Lavoravo per Video Calabria per costruire un albergo a Crotone, quando “Pablo” che gestiva il business della società, sapendo dei problemi di mio figlio, mi suggerisce di organizzare un incontro con dom Christian, che viveva non lontano da lì. Io accetto e rispondo: “Va bene, lo programmiamo per la prossima volta”. Invece, la sera stessa della partenza, arrivando all’aeroporto di Lamezia, intravvedo un frate circondato da una decina di persone: mi avvicino a una di queste e chiedo chi fosse il religioso e mi viene detto che è padre Christian. A quel punto, telefono a Pablo e gli dico: “Mi hai proposto di incontrare dom Christian ed è vicino a me, posso passarti la telefonata, così mi presenti?”. La replica è stata significativa: “No, abbi fede e chiudi la chiamata”. Rispondo: “Ho fede”, e quindi ho spento il cellulare, sperando di poter incontrare il monaco come programmato. Una volta sull’aereo mi trovo – incredibile! – dom Christian seduto vicino a me nel viaggio verso Milano! Come può succedere una cosa del genere?
Provvidenza…
… Provvidenza!
Com’è stato questo incontro?
L’uomo si comportava come noi abbiamo in mente si comportino i santi: trasognato e ogni tanto si risvegliava dai suoi pensieri. Mi ha domandato cosa facevo a Crotone e gli ho detto che ero architetto e progettavo un albergo. Poi gli ho parlato di mio figlio e lui ha detto: “Se Dio mi dà la possibilità, vengo domani da lei”. Il giorno dopo, alle cinque del mattino, è arrivato a trovarmi in casa mia!
Durante il viaggio abbiamo anche parlato del fatto che mi è sempre piaciuto progettare ogni volta strutture diverse, cioè case, scuole, centri commerciali, uffici, etc., ma era mancata nel mio lavoro la possibilità di costruire carceri, ospedali e chiese. Tra noi scende un silenzio per un po’ di tempo, fin quando mi dice all’improvviso: “Ma lei progetterà una chiesa!”. E incomincia a descrivere il progetto con tanta precisione che mi venivano i brividi sulla schiena, perché non delineava nessuna di quelle costruzioni che siamo abituati a vedere e a conoscere. Tratteggiava qualcosa di diverso, ma che sentivo mio, tanto da coincidere con quanto vorrei ora realizzare. Tra l’altro, per arrivare a questa decisione ho dovuto essere bloccato su altri percorsi, perché ho presentato altri progetti di natura differente rispetto al santuario, ma sono stati fermati. Verso il 1998, su un terreno che avevo comprato a un’asta pubblica in Sardegna, terra natia di mia moglie, avevo presentato un primo progetto. Volevo costruire tre villette, ma è mancata l’approvazione del responsabile della paesaggistica. Poco tempo dopo muore mio figlio e nel giro di qualche anno anche mia moglie e ho, di conseguenza, accantonato momentaneamente l’idea di fabbricare su quel lembo di terra. Quando riprendo in mano la cosa, presento un progetto per edificare su quell’area un ristorante che viene approvato dalla Comunità, ma non dal Comune – purtroppo o per fortuna, perché c’è la Provvidenza che mette anche lei i bastoni tra le ruote degli architetti –, che stabilisce che non si può realizzare nulla su quel terreno perché hanno inventato un vincolo ambientale. Concordo: è troppo bello!

Il progetto
Parliamo allora proprio dell’intenzione di costruire un edificio di culto: dom Christian ti ha regalato una sorta d’illuminazione, che per tempo rimane sopita, ma si risveglia in te e cresce a poco a poco, sino a quando giunge a maturazione. Cosa, dunque, ti ha ispirato a ritornare sull’idea e perché volerla realizzare proprio adesso?
Diciamo la “fortuna”! Una volta fermati i miei primi progetti ho riguardato le norme tecniche di attuazione: posso edificare, ma leggo anche una cosa interessante, ossia che nel territorio di Costa Paradiso le costruzioni d’interesse pubblico si consiglia di non concentrarle in unico posto, ma che siano diramate in modo tale che siano poli locali di sviluppo, etc. Avevano iniziato la costruzione di una chiesa, ma in un posto sbagliato perché isolato, e l’edificazione è stata fermata, non è andata più avanti, non so perché. Il culto viene tuttora attivato all’aperto, in piazza. Mi son detto, dunque, come si dovrebbe dare vita a una cosa che prescinde dagli oneri di urbanizzazione primaria, cioè – come per gli eremitaggi, i rifugi alpini… – senza strada, parcheggi, acqua potabile, fognatura, etc. Ecco l’idea: realizzare il volume e lo spazio della chiesa e basta. Oltretutto c’è una piccola valle, che si può svuotare, togliendo la terra, per fare spazio all’edificio, mentre le pareti saranno la stessa roccia di granito rosa. Una volta scavato e costruito l’interno della chiesa, si ricopre il soffitto all’esterno con un tappeto di erba verde e praticamente non si vede più quello che è stato fatto di sotto. Il terreno rimane come quello originario. Quest’idea penso sia vincente e risponde a quello che diceva padre Christian nella descrizione che mi aveva fatto anni fa! Il granito rosa di Sardegna crea l’ambiente mediante le pareti già esistenti! Sono persuaso che Dio ha preparato tutto! La forma è di per sé già perfetta!
Qual è adesso il tuo desiderio profondo rispetto a questo progetto?
Devo ancora raccontare un fatto pregresso. Quando è stato acquistato questo terreno, mia moglie, sarda, era viva e abbiamo preso questa decisione insieme. Era come comprare un pezzo di Sardegna, che per lei era la patria natale. Faceva parte del bene della nostra famiglia di allora, il pensiero di poter abitare quella terra, e fare un piccolo investimento. Invece, la Provvidenza mi ha portato a comprendere altro. Il desiderio si è rinsaldato ed è venuto fuori – possiamo dire – con particolari che sono strani e, tecnicamente, anche speciali. Per esempio, ho ideato la copertura in modo non classico: il traliccio di copertura è costituito, infatti, da strutture in acciaio a ventaglio coordinate da elementi curvi. Non è una struttura normale: non ha pilastri, ma s’innesta su dodici punti della roccia laterale, e quindi non c’è un pilone che sostiene tutto!
È una struttura reticolare spaziale, con un disegno anomalo. Direi che, quando lo si vedrà, risulterà a ventaglio: molto bello, spero, e interessante. La copertura, o meglio, l’intradosso della copertura, sarà sagomato a onde, così che i riflessi – poiché si affaccia sul mare da una parte e indirettamente dall’altra – giocheranno sulle onde del controsoffitto, che sarà sagomato con questa forma anche per motivi strutturali e insieme estetici. Ora mi chiedo se avrò tempo per vedere tutto questo compiuto [sorride].
Un progetto indubbiamente affascinante, ma perché dedicarlo all’Assunta? Hai detto anche che Maria illumina il mondo: cosa intendi?
C’è una cosa che non sono più riuscito a dimostrare: sulla parete di fondo, sulla roccia, si intravede la sagoma della Madonna. Io l’avevo fotografata, ma non riesco più a trovare quella istantanea (probabilmente l’ho considerata tanto speciale da averla messa troppo da parte). Era come un suggerimento di una presenza, come a dire: “Questo luogo è predestinato a me”. Allora ho pensato di realizzare sul piano ricostruito del prato solo un’emergenza con un globo, che rappresenta il mondo: un’enorme sfera di vetro di circa due metri o due metri e mezzo di diametro. La Madonna è raffigurata nella situazione di fine vita, in attesa di essere portata in cielo. Si narra che siano stati due angeli o Gesù stesso – io preferisco pensare che sia stato lui – a prenderla. Nel mio progetto, è lui a venire per trarla in Paradiso. La Madonna è sdraiata sul mondo, che tra l’altro è trasparente, esattamente in verticale sopra l’altare del piano sottostante, e arriva Gesù per accoglierla. Le due figure sono contrapposte visivamente: la Madonna guarda da una parte e Gesù dall’altra e i loro sguardi s’incrociano. Da qualsiasi angolazione si osservi, le due figure interagiscono. Non credo che nella storia delle rappresentazioni plastiche ci sia un’immagine simile: la Madonna in un modo e Gesù contrapposto, libero nell’aria, mentre lei è distesa sul mondo.
Una grande suggestione come quella che darà il santuario, ma quale sarà il percorso per raggiungerlo?
Si arriverà a piedi in circa un quarto d’ora. L’idea è quella di un pellegrinaggio, o di una semplice passeggiata. La maggior parte dei residenti di Costa Paradiso percorre già questa strada per andare alla spiaggia, quindi è un percorso che i bagnanti fanno abitualmente, e per la cappella ci vuole metà del tempo rispetto a quello necessario per raggiungere il lido. La chiesa è, però, nascosta. Percorrendo il sentiero per andare alla spiaggia, non ci si accorge minimamente della sua presenza. Questo è proprio un aspetto interessante: una chiesa nascosta, ma che scoperta si presenta bella e accogliente, aiutando chiunque entri a pregare, sia in maniera personale che comunitaria.
Non posso non chiedere come sia questa chiesa all’interno. Come l’hai progettata?
La chiesa è racchiusa tra due vetrate principali: una d’ingresso e una dietro l’altare, illuminate reciprocamente. La forma della chiesa è dettata dalle rocce circostanti come la natura le ha plasmate nei millenni. Non è grande: la superficie edificabile è di 180 metri quadrati, con una capienza di circa 150-200 persone, che mi pare un numero adeguato. Ho anche pensato a una cripta integrata di circa 40 metri quadrati, sfruttando il terreno che scende verso il mare. Le vetrate sono di due tonalità diverse: una apre verso nord con colori azzurro e verde e l’altra, rivolta a sud, presenta tonalità calde e rosse, ispirate alle vetrate della Sagrada Familia. Questo contrasto giocherà con la luce naturale e creerà un effetto unico.
Dal punto di vista energetico, come sarà alimentata la struttura?
Non ci sarà nessun tipo di riscaldamento, perché in Sardegna non è necessario. Nel caso, si prevedrà una rete di illuminazione quando sarà possibile ottenere un collegamento elettrico. Tuttavia, mi piace pensare che l’illuminazione principale possa essere affidata a fiaccole e candele. Questo conferirebbe all’ambiente un’atmosfera suggestiva, in armonia con la natura e la spiritualità del luogo.
Qual è il tuo desiderio in questo momento in vista del progetto che ci hai raccontato?
Sarebbe interessante vedere se questa idea potrà andare avanti o se morirà, come tanti altri progetti. Io credo che, se siamo arrivati a questo punto, in qualche modo – io vivo o morto – si concretizzerà, perché ha un richiamo potente, capace di conquistare le persone quando vedranno realizzato quanto ho in animo. È un posto magico. Le pareti di granito rosa, scolpite dal vento e dagli agenti atmosferici, sono di una bellezza unica. Devono essere lasciate così come la natura le ha create e modellate, visibili e integrate nella costruzione, mostrando una bellezza che si può solo esaltare.
Credo che sia giusto lasciare questa testimonianza, qualcosa che qualcuno aveva prefigurato e che ora può essere realizzato. E questo è il mio desiderio più profondo.
Stupendo! Vien da dire che più forze insieme si sono sostenute: la “profezia” di un “santo”, l’ingegno umano, la bellezza della natura e il lavoro della Provvidenza…
… la Provvidenza, perché assicuro sono capitate coincidenze impossibili da spiegare con la sola ragione!
Samuele Pinna